MELINA SCALISE
Esiste un momento topico della storia dell’umanità e della nostra cultura che ha contraddistinto tutto il Novecento: la scoperta dell’inconscio e l’invenzione della psicoanalisi.
Da quel momento in poi l’uomo si è posto di fronte al mondo con un doppio sguardo che non appartiene più solo alla sfera magica primitiva, ma alla consapevolezza che ognuno di noi vive tra due realtà, tra due mondi: interno ed esterno.
La vita è anche sogno: è proiezione dei nostri desideri, dei nostri bisogni, delle nostre emozioni. L’arte diventa lo strumento per eccellenza attraverso il quale poter esprimere il mondo interiore e il Surrealismo ne diventa la corrente più rappresentativa. Marina Carboni ne subisce il fascino fin dai suoi esordi. I suoi primi lavori, negli anni ’70, ricordano paesaggi onirici vicini a quelli di Salvador Dalì, ma dopo un periodo che l’artista stessa definisce “periodo di evoluzione”, giunge all’ultima intensa e originale soluzione creativa. Marina propone il suo lavoro secondo un percorso di maturazione che non appartiene solo all’artista, ma all’uomo, nel caso specifico alla donna: lei cambia e la sua arte cambia. Un ponte di collegamento denso e mai interrotto tra il “suo dentro” e il “suo fuori” che oggi è capace di rappresentare una sintesi non solo creativa, ma filosofica che racconta il suo porsi alla vita.
Le opere di Marina Carboni descrivono un mondo che non appartiene mai alla certezza. Tutto è mutevole. Fluido. Che sia un paesaggio o una figura non importa, entrambi non si collocano in uno spazio definito da sole ascisse e ordinate. La forma si sforma. La linea si arrotonda. La prospettiva si rovescia e il cielo si confonde con la terra. Tutto potrebbe essere tutto. La terra può diventare acqua quanto un volto la struttura di un paesaggio. Chi non ha mai visto un’opera di Marina leggendo queste righe potrebbe ricondurla ad uno degli artisti contemporanei che tanto hanno raccontato l’angoscia dei tempi moderni fatta di troppi e veloci cambiamenti, di perdite di identità e ruoli, di mancanza di prospettive. Ma non è così.
Marina non ha paura dell’indeterminatezza perché non lascia sulla tela spazi oscuri, colature, forme spezzate, lei, della variazione della forma, della sovrapposizione di spazio e tempo, della somma di prospettive e trasparenze ne fa un armonioso racconto ammaliante quanto l’ascolto di una musica. Nessuno osservatore delle opere di Marina può restare fuori dalla tela. Necessariamente ci entra, nonostante la bidimensionalità, come se stesse sfogliando un libro fatto di pagine di carta velina. Ogni foglio è il frammento di una forma e, se nel dettaglio rimane tale, nel susseguirsi delle sovrapposizioni si trasforma fino a prendere senso, corpo, sostanza, esistenza, storia.
Le sue opere sono un’esperienza emozionale che riesce a culminare sempre nella percezione di una totalità e di un’armonia. Il nero non ingoia mai perché si manifesta nelle sue sfumature di grigio fino a fondersi nei gialli caldi del sole, nei bruni della terra, negli azzurri del cielo e nelle trasparenze dell’acqua. Acqua, terra, cielo e fuoco sono plasmate da Marina con tutto l’inconscio creativo femminile che le appartiene e la completa. La sua firma pittorica, infatti non è data dal nome, ma da un segno ricorrente e, qualche volta, subliminale: il cerchio.
Marina Carboni porta questa firma. Un cerchio più o meno evidente è presente in ogni suoi dipinto. E’ come se l’imperfezione e l’incertezza di ogni oggetto rappresentato, nonostante tutto il suo divenire e fluire, appartenga a un ciclo che è sintesi di perfezione assoluta. Non importa se il cerchio sia il punto di partenza o di fine perché ogni fine porta il seme di un nuovo inizio. Ogni cerchio, infatti, una volta scoperto nel dipinto, cattura lo sguardo e porta l’osservatore altrove verso un’altra idea di forma, completamente opposta a quella “irrigorosa” e resa dominante dall’artista. Apre uno sguardo verso un altro dove, un altro esistere.