FRANCO DIOLI
La sua visione pittorica si colloca in una realtà diversa, il sogno e in qualche modo ci fa vivere sensazioni, emozioni forti e vere quanto è vera l’esistenza del nostro corpo che nel sonno sente il tatto, le musiche e le voci, i sapori amari e quegli dolci, che vede i colori e gli spazi senza mura né confini
Oggi Marina Carboni si ripresenta in pubblico con le sue nuove produzioni artistiche che sono il frutto di un accurato percorso introspettivo, infatti alla domanda: c’è una data per stabilire l’inizio presumibile del mutamento della sua pittura? La risposta è no. Perché la pittrice è sempre stata, anche nei momenti di abbandono della scena pubblica, sempre in work project, sempre attiva e percettiva alla sperimentazione, sottoponendosi costantemente ad una severa autocritica.
In alcune primigenie opere (1967) la pittrice precorre una ricerca volta al futurismo, ben presto abbandonata, muovendosi quasi in senso opposto ai racconti visionari rappresentando non un istante di movimento ma il movimento stesso, nel suo svolgersi nello spazio e nel suo impatto emozionale, ricercando la prevalenza dell’elemento dinamico: il movimento che infatti coinvolge l’oggetto e lo spazio in cui esso si muove in sintesi l”estetica della velocità”, sempre tuttavia con un eccezionale gusto per gli accostamenti cromatici nell’esaltazione del colore. Altre opere riconduco alle caratteristiche forme di Novecento Italiano come L’ammalata, mia madre (1970). La pittrice manifesta così l’approdo gratificante di una simile applicazione e riflessione per l’articolato e singolare svolgimento delle tematiche a lei più congeniali.
Ecco quindi la costante e innovativa presenza del cerchio o sfera come forma di sforamento della rappresentazione verso un nuovo spazio percettivo.
La genesi del cerchio o sfera, nelle opere della Carboni, è rilevabile nel significativo dipinto Preghiera (1971), nel quale si percepisce in maniera univoca la sua funzione psicologia, ovvero lo sconfinamento della narrazione verso una proiezione spazialista, il primigenio cerchio che si fa vortice, buco nero astronomico, tunnel verso una nuova percezione di spazi ai quali l’osservatore viene indirizzato attraverso la propria suggestione mentale.
Come alcuni artisti che, manifestando insofferenza verso la spettacolarità narrativa della pittura accademica, ma anche verso le più avanzate tendenze naturaliste dei pittori realisti ed impressionisti, ha elaborato un linguaggio complesso e innato, volto ad indagare il senso segreto delle cose, a raffigurare l’invisibile e a toccare le corde più profonde dell’animo umano raggiungendo in alcuni casi esiti di matrice munchiana: Cristo (1969) e Sfinge (1971).
C’è da dire che la pittrice non mutua nessun artista, non segue scuole di pensiero né emula atteggiamenti già visti, la sua, possiamo certamente affermare, è una pittura nuova, uno stile a lei proprio in continuo divenire, le sue opere sono momenti dell’anima e quindi determinati dalla sfera estremamente privata dei suoi stati emozionali.
Per comprendere meglio il percorso della Carboni, occorre ritornare al 1972, così Galotti presentava le opere di Marina Carboni al debutto pubblico presso la Galleria “La Spirale” di Genova proprio in quell’anno: “Le rovinose lande bicolori di Marina Carboni, irradiate da fredde luci apocalittiche e coinvolte da lunghissime ombre inumane, sintetizzano una remota e arcana visione imbrigliata da gesti e da scarnite forme metamorfiche. Le immagini sono qui disposte come furie appartenenti a un dramma ellenico, come divinità infernali suscitatrici di discordia.
Gli stati d’animo di questa giovanissima pittrice si coordinano con rigore di tecnica e con notevole percettività di visione. Il pregio di certe inquadrature spettacolari infatti, rendono efficienti sia i dettagli prospettici, sia gli aggruppamenti di scenografica relazione. Con tutto ciò i suoi dipinti a tempera, raccolti nell’alveo di una panica sospensione, oltre a possedere una organizzata pulizia cromatica e uno slancio disegnativo considerevole, mettono in luce i motivi, cioè le contraddizioni, i rapporti e la pietà della nostra esistenza. Non è facile incontrare nella pittura femminile d’oggi una tale caratterizzazione dedicata esclusivamente al racconto visionario, al pathos, ai relitti terrestri di un mondo ossessivo, spinto innanzi dalla memoria con tanta sicurezza. Marina Carboni, forse vuole esprimere le inquietudini, gli attimi allucinanti di una ristretta comunità. Le strutture ossee, ramificate, desolatamente sconvolte, appartengono alla sua figurazione, alle sue erinni gesticolanti, sorte attraverso verticali simbiosi e spazi siderei.
In questa prima personale a Genova, esiste il concetto di una natura ideata, profondamente significante. Indirettamente la Carboni cerca, nella radice primeva della specie, il flusso di una ragione ancora efficace. Nelle sue composizioni, la donna esce dal proprio corpo, dal nostro universo fatto di carne e si allontana dalla sua storia matriarcale, dalla concreta temperie, per rifugiarsi in un limbo non più germinante. Qui rimangono le fibre avvizzite, le apparenze metafisiche volte a dimensionare voragini e fenditure di una terra tinta di viola e di rosso garanza.
La nostra pittrice avverte quindi la necessità di penetrare in questi avvenimenti cromatici di eccitante trasfigurazione, di timbrica esaltazione; crede alla nudità fisica, all’essenza, allo scheletro di ogni elemento vitale. In tal senso, la cultura acquisita non rientra nell’attuale, e certo poco gradevole, tematica dell’artista.
I personaggi emblematici riflettono più la sensibilità e l’aspirazione effettuale di un periodo creativo, che l’inserimento a una data corrente figurativa. Ma quello che più importa è la convinzione di tale disciplina, è la ricerca poeticamente espressa della nostra sorte effimera, che produce altra sorte nella temporale luminosità dell’universo, nella muta invocazione tra silenzi e tumulti tecnologici” (Galotti 1972).
Si tratta di opere riconducibili al periodo artistico denso di significati esistenziali suffragati da motivazioni surreali, da figurazioni drammatiche, tese, imploranti quasi, anche qui l’avvento della catarsi, del diluvio liberatore, a questo è succeduto un linguaggio che si rifà alla forma, ai suoi ritmi, alle sue evanescenze ad un periodare nuovo ed esclusivo, una sorta di moto ondoso, di geometrie fantastiche, di dissonanze uguali e diverse alle quali, questo è certo, sovrintende un singolare gusto cromatico e un segno dolce ed incisivo ad un tempo.
In pochi anni la ricerca costante ed intelligente della Carboni ha raggiunto notevoli traguardi artistici, è assillata dal problema di sdoppiare la figura per una verifica sulle possibilità di annullare la fisicità dei volumi, con prove di stilizzazione e astrazione lineare di derivazione secessionista o sintetista. Di conseguenza, frazionata la consistenza di un’entità in diversi piani trasparenti, la pittrice penetra lo spazio con le progressive sovrapposizioni cromatiche ridotte a sottili velature. Questo per ottenere una maggiore profondità ottica e mentale. Compiuta questa operazione, le allusività figurali generate dal tessuto pittorico, si allungano su piani di fuga per compenetrarsi con l’universo e creare scomparti di luce filtrati da trame luminose, riconducendosi ad un simbolismo dei “fabbricanti di immagini”, coloro che hanno sperimentato il sintetismo e l’astrazione lineare e coloristica. Possiamo concordare con quanto sintetizzato da Dino Pasquali : “ci troviamo ad analizzare una pittura surrealistica e più segnatamente simbolista ed aggressivamente espressionista”.
Oggi a distanza di quasi quarant’anni, durante i quali Marina Carboni, pur non comparendo più in esposizioni pubbliche, non ha mai sospeso la sua proficua ricerca pittorica, arriva a conclusioni tese a sviluppare in immagine la fragranza dell’idea, unica protagonista dei suoi lavori. Il suo è un dipingere levigato, meticoloso senza palpiti di pennello, ma ricco I sottili filamenti che scaturiscono dalle immagini e le contornano rappresentando i legami psichici che legano l’artista all’opera, una dialettica dello sguardo, del vedere e in sintesi della visione. In lei si declinano in maniera esplicitata i canoni che hanno caratterizzato il simbolismo : la sintesi, l’idealismo, l’emotività, il soggettivismo fino al decorativismo, in una caratterizzazione resa da un tratto sinuoso che richiama con franchezza l’arabesco, con aperture all’esotismo, dove la campitura del colore è intrappolata dal tratto.
E’ un procedere per successivi aggiustamenti, per fughe e per ritorni improvvisi. È la ricerca insistita della luce o del silenzio o di un riverbero che corrispondeva all’emozione, al desiderio di una realtà diventata illusoria nei confronti di un sentire che andava a cercare la sostanza nelle accurate campiture di colore che determinano il soggetto che l’artista vuole rappresentare.
Spesso è una ricerca di sostanza proprio nella sua assenza, come nelle opere di Graham Sutherland o di Francis Bacon. È successo ai tanti autori che hanno traghettato la personale capacità indagatrice al di là della contemplazione inseguendo un linguaggio innovativo dove il travaglio aveva perseguito la via metamorfica o espressionista o aveva percorso qualunque altro sentiero indicato dalla sollecitazione emotiva, dal desiderio di una perdita e di un diverso ritrovamento percettivo.
Quando lo sguardo e il gesto di Marina Carboni penetrano l’immagine volendo indagarne la sostanza, l’essenza, l’immagine si perde o, meglio, perde la parte superficiale, il contorno, il lato più apertamente descrittivo di sé. In questi casi l’immagine si proietta all’interno di chi osserva e di chi finalmente intende carpire nel paesaggio o nella figura che gli sta di fronte o negli oggetti da rappresentare, quella parte di sé tenuta, volontariamente o inconsciamente, sempre nascosta. Ed è proprio allora che il colore si fa sostanza, si fa specchio vero dell’intimo. In tal modo lo smarrimento della messa a fuoco retinica corrisponde alla decisiva chiarezza dell’anima. Si può quindi delineare per la pittrice un accostamento al simbolismo , una visione della natura volta a cogliere la realtà interiore come qualcosa di profondo e suggestivo, tanto da dover essere evocata più che descritta.
Evocazione ed essenza descrittiva sono le due caratteristiche principali di questo linguaggio espressivo. Nelle opere si evince come la realtà sia formata dalla pura idea, e questo comporta che la pittrice, in qualità di veggente, traduca i significati profondi e li riporti sulla tela in forme sensibili e comprensibili da tutti: l’artista dunque, deve riuscire ad esprimersi oggettivando il soggettivo, andando cioè in netta controtendenza alla tradizione sin qui seguita, cioè quella di rendere soggettivo l’oggetto, come sostiene Gunestave Kahn.
Alcune opere della Carboni sono spesso memori di un soggetto di partenza da cui si procede per progressive semplificazioni astratteggianti; essa rivaluta il sogno, l’irrazionalità, la follia, gli stati di allucinazione, cogliendo l’essenza intima della realtà, oltre la realtà stessa per enucleare il midollo della vita. La sua visione pittorica si colloca in una realtà diversa, il sogno e in qualche modo ci fa vivere sensazioni, emozioni forti e vere quanto è vera l’esistenza del nostro corpo, che nel sonno sente il tatto, le musiche e le voci, i sapori amari e quegli dolci, che vede i colori e gli spazi senza mura né confini; sensazioni provocate da linee fluttuanti e ondulate, da linee ondulatorie e ritmiche, da forme circolari-sferiche, dal senso della luce, dal passaggio dall’oscurità alla luce che è vita. Il sogno per l’artista svela la vita dei sensi, oltre l’umana realtà dei nostri occhi, oltre la vita del corpo verso la vita dello spirito, dove la fusione tra realtà e sogno si esplica nel libero accostamento di materiali diversi, che riproducono contenuti onirici e visioni inconsce.
Nella produzione artistica della Carboni si riscontrano anche elementi stilistici sovrapponibili ma non mutuati a quelli del “Gruppo Forma”, ci sembra pertanto opportuno riportare uno scritto di Giacomo Belloni sul gruppo per comprenderne le analogie con la nostra: “Riconosciamo nel formalismo l’unico mezzo per sottrarci ad influenze decadenti, psicologiche, espressionistiche; il quadro, la scultura, presentano come mezzi di espressione: il colore il disegno, le masse plastiche, e come fine un’armonia di forme pure: La forma è mezzo e fine. il quadro deve poter servire anche come complemento decorativo di una parete nuda, la scultura anche come arredamento di una stanza; il fine dell’opera d’arte è l’utilità, la bellezza armoniosa”; fermo è l’intento di dare sostanza al contenuto, riferendosi alla cultura poetica, al mito ed all’indagine dell’anima.
Spesso le raffigurazioni tendono a migrare nell’essenza che le determina confondendosi col concetto sempre più astratto di paesaggio o di figura nelle quali la sfera, che rappresenta la cifra distintiva presente nelle sue opere, è il compimento di un viaggio verso lo spazialismo e nello stesso tempo l’inizio di una visione onirica frutto della ricerca di un “oltre” emozionale in bilico tra il pensiero e la sua relazione con un oggetto, tra l’immagine e la sua spoliazione o il suo definitivo smarrimento in un dramma dell’inconscio. E come Sutherland si ripropone e si sovrappone, prende a un certo punto addirittura il sopravvento gestuale ed emozionale in queste prime fasi di intensa ricerca strutturale. l’approdo gratificante di una simile applicazione e riflessione per l’articolato e singolare svolgimento del tema. Spesso nelle opere si avvertono vere e proprie allegorie dei tormenti esistenziali, un oggetto, tra l’immagine e la sua spoliazione o il suo definitivo smarrimento, si colloca in un dramma dell’inconscio. Con questi accenti, che si potrebbero definire neo metafisici, da non confondere con la metafisica di De Chirico, ma nel senso di atmosfere sospese, l’allucinato gioco di un substrato figurale diventa in queste opere favola al di là dal tempo, pur appartenendo all’essenza della nostra vita stessa: La galleria degli antenati (1972) e Filo rosso (1973).
Tuttavia come afferma la Balestreri: “… occorre precisare, che questi assiomi filosofici non disturbano il linguaggio pittorico, che la Carboni realizza con una precisione quasi matematica, calibrando gli elementi per mezzo di una grande sfera che evidenzia forme primigenie spesso configurate ai margini di un morbido geometrismo ”. E ancora: “il colore appare articolato sui toni sommessi dei grigi-azzurri-verdi con interventi di un bianco gelido e di un rosa polvere, ma sempre scanditi sul ritmo di percezioni luminose che man mano si dissolvono in armoniche campiture”.(Balestreri 1975).
La sua personale teoria basata sulla ripetizione ritmica e simmetrica delle linee portanti della composizione, negando ogni passaggio tonale, sostituito da decise campiture cromatiche, accostate con magistrale sapienza e gusto, permette all’artista la definizione di uno stile fortemente semplificato ma, al contempo, carico di forte connotazione espressiva.
Prima di concludere riteniamo opportuno riportare uno stralcio del commento di Ricaldone alla personale della Carboni nel 2013 presso la Galleria “Arte & Grafica” di Genova: “… l’ambiguità della rappresentazione è spinta al limite dell’indecifrabilità tra volto e paesaggio, fra paesaggio e composizione astratta. Così un volto dai tratti marcati si trasforma in agglomerato minerale; il profilo di una danzatrice in una concatenazione di motivi curvilinei; il mare intravisto a New York in un varco azzurro sovrastato da imponenti masse squadrate. Il colore, un tempo disteso in campiture uniformi, acquisisce nuove trasparenze, sfumature modulate con rigore e sapienza, che conferiscono ai singoli lavori una dimensione vibratile, particolarmente consona agli scorci ligustici che costituiscono il soggetto forse più frequentato, costituito dai borghi abbarbicati alla collina a precipizio sul mare delle Cinque Terre, di cui restituiscono poeticamente l’”asprezza vertiginosa” evocata da Renato Birolli e, insieme, la “dosata gaiezza”. (Ricaldone 2013).
La missione dell’artista è oggi quella di esprimere l’elemento eterno della natura dando evidenza alle cose e alle forme del corpo umano, le quali ci rivelano una natura definita e semplificata, ed è col nostro occhio e con la nostra intelligenza che penetriamo nello splendore da cui siamo circondati.
Per concludere, col trascorrere del tempo e come i migliori artisti, Marina Carboni sviluppa un linguaggio personale. Ricercatrice e sperimentatrice si esprime secondo una personale poetica legata al segno-colore con divagazioni materiche ed informali, dotata di cultura e dottrina pittorica, capace di innalzare l’arte a veicolo di pensieri e sentimenti in una caparbia ricerca non ancora conclusa.