FRANCESCO GALOTTI
I personaggi emblematici riflettono più la sensibilità e l’aspirazione effettuale di un periodo creativo, che l’inserimento a una data corrente figurativa.
Le rovinose lande bicolori di Marina Carboni, irradiate da fredde luci apocalittiche e coinvolte da lunghissime ombre inumane, sintetizzano una remota e arcana visione imbrigliata da gesti e da scarnite forme metamorfiche. Le immagini sono qui disposte come furie appartenenti a un dramma ellenico, come divinità infernali suscitatrici di discordia.
Gli stati d’animo di questa giovanissima pittrice si coordinano con rigore di tecnica e con notevole percettività di visione.
Il pregio di certe inquadrature spettacolari infatti, rendono efficienti sia i dettagli prospettici, sia gli aggruppamenti di scenografica relazione.
Con tutto ciò i suoi dipinti a tempera, raccolti nell’alveo di una panica sospensione, oltre a possedere una organizzata pulizia cromatica e uno slancio disegnativo considerevole, mettono in luce i motivi, cioè le contraddizioni, i rapporti e la pietà della nostra esistenza.
Non è facile incontrare nella pittura femminile d’oggi una tale caratterizzazione dedicata esclusivamente al racconto visionario, al pathos, ai relitti terrestri di un mondo ossessivo, spinto innanzi dalla memoria con tanta sicurezza. Marina Carboni, forse vuole esprimere le inquietudini, gli attimi allucinanti di una ristretta comunità.
Le strutture ossee, ramificate, desolatamente sconvolte, appartengono alla sua figurazione, alle sue erinni gesticolanti, sorte attraverso verticali simbiosi e spazi siderei.
In questa prima personale a Genova, esiste il concetto di una natura ideata, profondamente significante.
Indirettamente la Carboni cerca, nella radice primeva della specie, il flusso di una ragione ancora efficace.
Nelle sue composizioni, la donna esce dal proprio corpo, dal nostro universo fatto di carne e si allontana dalla sua storia matriarcale, dalla concreta temperie, per rifugiarsi in un limbo non più germinante.
Qui rimangono le fibre avvizzite, le apparenze metafisiche volte a dimensionare voragini e fenditure di una terra tinta di viola e di rosso garanza.
La nostra pittrice avverte quindi la necessità di penetrare in questi avvenimenti cromatici di eccitante trasfigurazione, di timbrica esaltazione; crede alla nudità fisica, all’essenza, allo scheletro di ogni elemento vitale.
In tal senso, la cultura acquisita non rientra nell’attuale, e certo poco gradevole, tematica dell’artista. I personaggi emblematici riflettono più la sensibilità e l’aspirazione effettuale di un periodo creativo, che l’inserimento a una data corrente figurativa. Ma quello che più importa è la convinzione di tale disciplina, è la ricerca poeticamente espressa della nostra sorte effimera, che produce altra sorte nella temporale luminosità dell’universo, nella muta invocazione tra silenzi e tumulti tecnologici.