DINO PASQUALI
Ci troviamo ad analizzare una pittura surrealistica e più segnatamente simbolista ed aggressivamente espressionista.
A voler ignorare la spiaggia destinata all’esemplare e consapevole scommessa di sé del circoscritto campionario di eroi, alla cui coscienza non suona amleticamente il dubbio scespiriano « se sia più nobile cosa nell’animo soffrire o lottare in armi contro il male », esser calati nel proprio tempo significa almeno avvertire le inquietudini, i drammi e le contraddizioni contemporanei. Particolarmente chi ha da giocare intatta, o quasi, la meravigliosa ed ineguagliabile avventura della giovinezza – prima, intendiamo dire, che il desiderio di « clausura » sopraggiunga con il declinare della parabola anagrafica – avverte il bisogno di prendere posizione sui « malesseri » dell’epoca. E in genere il giovane prende partito disinteressatamente – il che si trova comodo definire « un incanto romantico » – astraendo in sostanza dal fine pratico per un esigenza dello spirito e di creatività. C’è insomma, se chiedere supporto al pensiero dello Stagirita è lecito e concesso, da considerare in prevalenza l’ideale antefatto della « poiesi », anziché la realtà della prassi.
Anche la circostanza idealistica che anima Marina Carboni – ventunenne genovese la quale, proveniente da una lato retroterra surrealistico e più segnatamente simbolista ed aggressivamente espressionista, non ha in questa sede da farsi perdonare, scriviamolo pure con tutta franchezza, un idalio momento floreale proposto come impegno ecologico – rimane sottesa in ultima analisi all’urgenza di apportare un suo contributo critico (non ne importa poi gran cosa il grado effettivo) ai problemi del giorno nei quali si sente personalmente e maggiormente coinvolta. Da considerare in primis l’alienazione: quell’alienazione che, malgrado un lungo tambureggiare filosofico e sociologico, il sistema è riuscito a gabellare ai pigri come un termine à la page per arricchire il lessico, in luogo di un concetto, di una realtà tirannica su cui meditare e alla quale ovviare.
Questa immanenza psicologica – cioè l’immediata disposizione, ripetiamo, a percepire le tensioni e gli aspetti inquietanti dell’esistenza contemporanea – e il conseguente « monologo » riflessivo e polemico, costituiscono il platf ond sentimentale e concettuale da cui è innervato quell’apparente « onirismo » saturo di valori emblematici che individuano il mezzo espressivo della pittrice. Un mezzo il quale, già sotteso agli « eroici furori » di anatomie straziate e strazianti, di atmosfere desolate e di climi da incubo, si è progressivamente placato e decantato negli aspetti iconografici, risultando così più sintetico e meno descrittivo, senza per questo aver perduto l’efficacia di una carica allusiva e tesa.
Poiché fortuna vuole che Marina Carboni non si rivolga a un pubblico disattento e salottiero, crediamo di poterci esimere dall’operare una tautologia alfabetica dello specifico visuale e formale (che tuttavia non tralasciamo di considerare rigoroso, malgrado, un curricolo non ancora rilevante); e deleghiamo, quindi, alla personale sensibilità ed educazione visiva dell’osservatore l’addentrarsi nel vivo della struttura pittorica vera e propria.
Se abbiamo insistito su questioni iconologiche e su un certo psicologismo, gli è che siamo piuttosto diffidenti, ormai, in tema di Eingebung – di « ispirazione » più o meno romanticamente intesa. Soprattutto, oggi come oggi, non crediamo più ad un « artista » predestinato nel ruolo di “asinus portans misteria”.